Sensemaking
Viene generalmente definita come sensemaking una serie di processi attuati nel tentativo di dare significato all’esperienza, adattando i dati ricevuti all’interno di una cornice che li organizza, ed allo stesso tempo modellando la stessa cornice sulla base di questi dati. Se ogni individuo costruisce il senso a partire dalla propria esperienza, la realtà non è di per sé dotata di senso intrinseco, ma è socialmente costruita sul significato datole da chi la osserva.
Fin dai tempi più antichi l’uomo ha cercato di dare un senso a ciò che accadeva intorno a lui, sia che dipendesse da sé, sia che sovrastasse le forze e le dimensioni umane. Nel primo caso ha sviluppato l’etica e il diritto, nel secondo ha creato miti, religioni, epopee, culture.
Nelle nostre esperienze quotidiane siamo tutti esposti ad un flusso continuo di informazioni ed eventi multiformi, casuali e caotici, che cerchiamo di ordinare con relazioni di causa/effetto e con altri tipi di strutturazione. Con queste mappe causali possiamo interpretare i flussi di esperienza dando loro senso e ordine logico in modo da predisporre il nostro comportamento. Noi riflettiamo su ciò che ci è capitato per dargli senso, per capire che cosa lo ha generato e che cosa ne potrebbe scaturire. Spesso ci torniamo sopra per dargli un senso diverso da quello che gli avevamo dato prima. Tutta la nostra realtà coincide perciò con il senso che le abbiamo dato. La realtà “esterna” è ambigua e ognuno le conferisce il suo senso. La realtà è priva di senso se la consideriamo a prescindere dal significato che gli individui le attribuiscono. I processi cognitivi con cui costruiamo la nostra realtà ci consentono di dare senso ai nostri flussi di esperienza.
Karl E. Weick, il sociologo che negli anni ’70 ha studiato i processi cognitivi applicati alle organizzazioni, ha proposto il sensemaking, o creazione di senso, come processo organizzativo. Creare un’organizzazione significa dare un senso a ciò che si vuole fare con l’impresa. La creazione ed elaborazione del senso è un elemento chiave della resilienza organizzativa, ossia della capacità che una qualsiasi organizzazione, da un trio jazz ad una multinazionale, ha di affrontare le turbolenze della complessità, e di pensare ed attuare i cambiamenti necessari a fronteggiarle.
Al sensemaking Weick fa precedere l’enactment, il processo di percezione, selezione e attribuzione di significato all’ambiente e al flusso di informazioni ed eventi a cui l’individuo è esposto. Individui e organizzazioni sono in costante evoluzione in un processo di auto-formazione e costruzione di una realtà soggettiva dotata di senso e di valore.
Come possiamo sapere cosa pensiamo (o vogliamo) prima di aver visto (o capito) ciò che diciamo (o facciamo)? Per Weick, questa frase contiene sia la ricetta per la costruzione del significato che l’atto di organizzare. Se il senso rende possibile l’atto di organizzarsi, questo a sua volta rende possibile il senso: si organizza se stessi attraverso e per il senso, e la creazione di significato permette agli attori organizzativi di condividere modelli mentali, valori e credenze, coordinare le attività e interagire.
Il sensemaking è un continuo processo di elaborazione fra pensiero e azione che interagiscono in modo ricorsivo: il pensiero influenza l’azione, l’azione influenza il pensiero. L’impresa è ciò che si costruisce e decostruisce grazie alle interazioni fra le persone. Non sono tanto le relazioni, quanto la qualità delle relazioni a fare l’organizzazione. Sono molto importanti gli individui come soggetti produttori di senso, e il loro senso comune o buon senso che emerge dai loro scambi comunicativi.
Gli individui che fanno parte di un’organizzazione agiscono sul proprio ambiente guidati da mappe cognitive che creano senso e vengono continuamente modificate dai risultati delle azioni compiute dagli individui stessi. L’individuo dà senso a ciò che ha fatto stabilendo legami di causalità fra azioni, motivazioni, credenze, passato e presente. Se i legami logici sono forti, quelli delle relazioni fra le persone devono essere abbastanza allentati e duttili da permettere adattamenti e cambiamenti. Un’organizzazione con legami troppo forti e stretti finisce col bloccarsi e non funzionare più in un sistema complesso. Nelle organizzazioni, le direzioni sulla costruzione di senso devono provenire dall’alto, per fornire delle linee comuni all’intera struttura, ma allo stesso tempo è necessario un certo grado di autonomia e flessibilità degli individui, per permettere la realizzazione del singolo, la creatività e l’innovazione.
Le sette caratteristiche del sensemaking sono sinteticamente definibili in questo modo:
- fondato sulla costruzione dell’identità (che cosa distingue la propria organizzazione dalle altre),
- retrospettivo (che cosa si è fatto in modo da giungere alla situazione attuale),
- costruttivo (enactive) di ambienti sensati,
- sociale (l’individuo interagisce con altri),
- continuo (la ridefinizione di senso non si ferma mai),
- centrato su informazioni selezionate in base al contesto,
- guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza, al quadro completo più che ai particolari.
Brenda Dervin nei primi anni ’80 ha proposto un modello teorico di sensemaking a livello di comunicazione individuale come una metafora caratterizzata da tre concetti fondamentali: situazione iniziale, mancanza o discontinuità, aiuto o risultati. Questi concetti si traducono in tre domande che riassumono il comportamento informativo e indicano il carattere dinamico e iterativo del processo di creazione di senso:
– che cosa manca nella tua situazione e che ti fa fermare?
– quali domande hai o quali ambiguità senti?
– che tipo di aiuto speri di ottenere per poter continuare?
Il divario fra la situazione in cui ci si trova e quella in cui si vorrebbe essere scava un fossato che rende incapaci di muoversi senza aiuto. L’individuo è chiamato a sperimentare diversi tipi di discontinuità in una situazione che si svolge in un contesto specifico. L’aiuto assume la forma della ricerca e dell’uso delle informazioni, che devono essere integrate e comprese per sviluppare la situazione iniziale. Dervin introduce anche il concetto di gap-bridging, il ponte che colma il divario: questo ponte informativo deriva dall’analisi e dall’interpretazione di idee, valori, conoscenze ed esperienze che permettono all’individuo di superare il fossato e progredire. Il processo è evolutivo e può includere cicli di feedback, poiché la percezione della discontinuità iniziale può cambiare a seguito dell’interpretazione che gli viene data.
La Dervin propone l’uso di un disegno dal tratto incerto e infantile, a indicare la soggettività evolutiva dell’individuo e la fluidità della situazione. L’azione di superamento del fossato è limitata nel tempo e nello spazio, perché è contingente alla situazione e al problema specifico.
Dalla situazione iniziale, determinata dalla storia, dalle esperienze, dagli orizzonti presenti e passati, ci si muove verso il divario, il fossato (gap), e cioè il problema, la mancanza di informazioni, la confusione. Il risultato è ciò che si raggiunge con l’aiuto ricevuto da informazioni e azioni positive e negative.
Per passare dalla situazione iniziale al risultato, c’è bisogno di un ponte di informazioni che permetta all’individuo di superare il fossato e avanzare. Il ponte è fatto di idee, pensieri, valori, ricordi che danno senso al divario.
L’individuo ha l’ombrello del contesto in cui si trova, costituito dalla cultura, dalle strutture di potere e di sapere, dalla comunità di cui fa parte. Il ponte è costituito da materiali vari provenienti da fonti diverse, e l’individuo, prima che il ponte sia completato, si può appoggiare solo su alcuni materiali per passare dall’altra parte, anche se il ponte potrebbe condurre ad un nuovo fossato, con un processo ricorsivo.
L’attribuzione di senso viene fatta con strategie e tattiche fra cui la trasformazione dei sostantivi in verbi (verbing) per passare dalla definizione della situazione statica (il nome, “problema”) all’azione dinamica (il verbo, “risolvere”).