Il problema
Dal muro alla scala
Il problema nasce da uno stato di ansia, da una condizione di disagio, dalla percezione di una carenza.
Tuttavia rappresenta in qualche modo l’uscita dal disagio, il momento in cui si passa da un atteggiamento passivo ad uno attivo, si prende il toro per le corna, si cerca di fare qualcosa. Rendersi conto che una certa situazione altro non è che un problema significa in qualche modo già uscirne, crearsi una prospettiva da cui le cose possono essere viste meglio.
C’è differenza fra crearsi problemi in uno stato ansioso e definire problemi in modo calmo). L’ipocondriaco, il malato immaginario, il depresso si tormentano con problemi che oggettivamente non esistono. Quando ci si trova in una situazione di debolezza si tende a subire i problemi come forze esterne e soverchianti.
Affrontare e definire i problemi presuppone una condizione di forza, sia psichica, sia di potere. Il problem setting è un’attività organizzata che di per sè riduce l’ansia e lo stress. Definire un problema significa prendere l’iniziativa, non subire gli eventi.
Il problema è qualcosa che prima o poi può essere risolto.
Un problema insolubile è un muro che va evitato e aggirato, o un non problema che va dissolto. Il problema solubile è una scalinata. Il problem setting ci mostra la scalinata togliendoci dai vicoli ciechi. O addirittura scompone il muro in muretti più piccoli, trasformandolo in una scalinata. Il problem solving ci fa salire la scalinata passo dopo passo. Il project management organizza e controlla chi deve salire, come, quando, dove deve arrivare. Il debriefing valuta se l’aver salito quella scalinata ha portato effettivamente alla soluzione sperata, e quali altre scalinate si presentano dal nuovo punto di vista.
Il problema è una struttura euristica che istruisce un processo di ricerca con lo scopo di arrivare ad una soluzione. Il processo parte dal riconoscimento di una situazione irrisolta, dalla definizione dei termini del problema, dalla corretta formulazione della domanda (problem setting). La domanda viene posta alla persona o al gruppo di persone che deve risolvere il problema. I solutori si mettono al lavoro e formulano le loro soluzioni. Da queste, spesso nasce l’esigenza di porsi nuovi problemi, in un processo più ampio di ricerca e di miglioramento.
Il problema è un riduttore di complessità, perché da un insieme indistinto e intessuto di infinite variabili sceglie solo alcuni elementi e alcune variabili da prendere in considerazione per arrivare ad una soluzione possibile e accettabile. Tutta la nostra comunicazione, i nostri rapporti, le nostre azioni si basano su riduttori di complessità, come modelli, giochi, rappresentazioni, linguaggi. Il modello riduce tutte le possibili combinazioni di colonna e capitello allo stile ionico. Il gioco permette di contendere solo con i dadi, solo con combinazioni da 2 a 12. La rappresentazione è un punto di vista, una proiezione, una maschera, un rituale. Il messaggio è una sezione del continuum spazio-temporale, una scelta fra le tante possibili. Il medium è un processo che fa da tramite fra due poli e li mette in comunicazione scegliendo (servendosi di) un canale e un codice (una tecnologia).
Il problema è un elemento del mito, è la sfida che viene lanciata all’eroe, è il punto interessante di qualsiasi storia.
Una vita troppo piena di problemi è difficile da vivere, ma una vita priva di problemi è un encefalogramma piatto.
Il problema va collocato nel suo contesto di tempo, luogo, cultura e attività. Se pongo un problema fuori tempo non viene accettato. Se pongo un problema più adatto ad un altro luogo non viene accettato. Se pongo un problema a persone di cultura e attività diverse non troverò in esser l’adeguata sensibilità al problema. Devo avere la capacità quindi di intuire il problema, di porlo nel momento giusto e alle persone giuste, di farmi sostenere da un potere caqpace di legittimare il problema, di “vendere” il mio problema, per non fare come Cassandra, che vedeva giusto ma non veniva creduta.
Ridurre la complessità
Il problema è una rappresentazione della realtà da un certo punto di vista, ma poiché agisce su di essa per modificarla con le soluzioni trovate, è un dispositivo, un microcosmo, un modello semplificato, un riduttore di complessità.
Il problema è un dispositivo. Il dispositivo è un congegno che serve a fare qualcosa. L’interruttore elettrico serve a chiudere un circuito e accendere la luce. I Ching o i tarocchi sono dispositivi divinatori, che servono per fare oroscopi e predizioni.
Il problema è un dispositivo logico e metodologico che serve per trasformare uno stato di disagio in un processo capace di eliminare o ridurre quel disagio.
Il problema è un microcosmo. Il microcosmo è un mondo in miniatura complementare al macrocosmo, ossia al mondo reale, da cui si distingue perché ne è una rappresentazione ridotta, simbolica e ordinata da regole di coerenza interna, i cui possibili oggetti e proprietà e possibili eventi sono definiti in anticipo in modo ristretto ed esplicito. Gli scacchi, per esempio, sono un microcosmo. In tal senso l’uomo stesso è un microcosmo, come lo è un romanzo o un film. Ma anche il problema rappresenta in piccolo e in modo ordinato qualcosa di molto più grande e caotico. E’ un microcosmo semplificato e semplificante, in quanto non tiene conto di tutti gli elementi, ma solo di quelli funzionali alla rappresentazione di una certa situazione reale.
Il problema è un modello semplificato. I modelli sono rappresentazioni o simulazioni di eventi reali realizzate in modo simbolico, per esempio con formule matematiche o con forme geometriche. In tal senso sono modelli la rappresentazione dello scioglimento dei ghiacci, o una carta stradale che rappresenta solo strade e case, ignorando rilievi, piantagioni, clima. Quando mi chiedo come fare ad arrivare in tempo in centro città nell’ora di punta, limito la mia richiesta solo alla mobilità, trascurando tutto il resto.
Il problema definito e formulato è un riduttore di complessità, in quanto sceglie solo alcune variabili da includere in un modello dinamico per ottenere un risultato, considerato come la soluzione del problema, o per eliminare le criticità contenute nel problema stesso.
Prendiamo per esempio un normale problema di aritmetica, dove un negoziante acquista qualcosa e la rivende ad un prezzo più alto. Il problema domanda quanto guadagna il negoziante. Per guadagno si intende la differenza fra ricavi e costi. E’ una semplificazione, in quanto poi andrebbe calcolata l’incidenza fiscale, quanto si spende in casa, che valore si dà al denaro, quanto si spreca, ecc.
Ovvero la valutazione aritmetica è molto diversa da quella psicologica, che in realtà è l’unica cosa che conta, dato che non è tanto importante la realtà delle cose, ma la percezione personale che se ne ha.
In tutti i casi della vita se si volessero prendere in considerazione tutte le variabili l’operazione sarebbe talmente lunga e costosa da risultare inutile.
Il problem setting orienta nelle scelte delle variabili da considerare, e aiuta a creare un modello della vicenda.
In altri termini, quando il negoziante acquista una merce e la rivende, apparentemente compie un’operazione semplice e ripetitiva. In realtà corre un rischio, pensa che quella merce si venderà, o crede che si continui a vendere, è preoccupato perché la moglie sta male, è contrariato perché il figlio ha scelto altre attività e non trova lavoro. Ma il problema non può prendere in cosiderazione tutto ciò, perché è un modello, un gioco, una rappresentazione, un messaggio, un medium.
Dall’ansia al problema, dal problema al compito
La funzione principale del problem setting è trasformare uno stato di ansia in un problema. La funzione principale del problem solving è trasformare un prublema in un insieme di compiti. Si tratta di funzioni critiche di alto livello, mentre i compiti possono essere affidati a semplici esecutori sia umani sia automatici.
La prima discriminazione critica si fa col separare il problema dalle condizioni nelle quali si trova. Il problema è come gli obiettivi: questi devono essere raggiungibili, così come il problema deve essere risolvibile. Altrimenti gli obiettivi sono sogni o buoni propositi, il problema si dissolve nelle condizioni che vanno al di là delle nostre possibilità di soluzione. Il dolore è la condizione, l’antidolorifico è il problema. Quando non so che fare, significa che mi trovo di fronte ad un problema insolubile (e allora lo devo spostare al livello di condizione) o che non ho definito il problema (e allora devo applicare metodologie di problem setting). Una condizione non è un problema, ma è generatrice di problemi. Un handicap (sono cieco) non è un problema, ma genera vari problemi: come faccio a leggere, a comunicare, ad aprire una porta?
Quando con il diagramma di Ishikawa si risale la scala dei perché, si arriva al vero perché, e si capisce se esso è alla nostra portata o no. Se non lo è bisogna assumerlo come condizione, e ridiscendere la scala fino ad incontrare il primo perché alla nostra portata. Questo può essere il nostro problema, di cui i perché superiori sono le condizioni.
Il problem setting, oltre che per definire un problema nuovo, si può usare anche di fronte ad un problema definito e formulato, per vedere se è definito e formulato bene. Per esempio l’alchimia si era posto il problema di trasformare i metalli vili in oro. La chimica ha ridefinito il problema. Il metodo scientifico non fa altro che ridefinire problemi precedenti, falsificandone le soluzioni. I problemi possono essere definiti male e risolti male, per esempio con la tossicodipendenza, definiti bene e risolti bene, come l’alpinista che conquista la vetta, definiti male ma risolti bene, come la scoperta dell’America. La pandemia Covid19 ha mostrato come problemi sottovalutati, ignorati e trascurati hanno messo in crisi i sistemi sanitari di tutto il mondo, e hanno costretto aziende e organizzazioni a ricorrere in modo affrettato e approssimativo al lavoro a distanza, quando avrebbero potuto definire correttamente il problema smart working almeno trent’anni prima.
Un discorso a parte va fatto per le emergenze. Una buona definizione dei problemi dovrebbe ridurle al minimo, ma ovviamente è impossibile prevedere tutto, e l’incidente è sempre in agguato. Spesso gli eventi precipitano in modo tale che non si ha il tempo di applicare una qualsiasi metodologia per definire e risolvere i problemi. Di fronte all’emergenza non c’è tempo per analizzare la situazione, e si corre subito ai ripari con azioni tampone.
Le decisioni spesso devono essere molto rapide, e non hanno lo scopo di valutare le alternative per scegliere la migliore, ma di imboccare subito una strada che porta fuori dalla crisi. Spesso si va per tentativi, e si cerca di agire subito sugli effetti senza risalire alle cause, e non si può fare altrimenti. Se una persona è caduta nell’acqua e non sa nuotare, la prima cosa da fare è tirarla fuori. In un secondo momento si può cercare di capire perché è caduta nell’acqua, o si può perfino insegnarle a nuotare. E’ importante ricordarsi di aver adottato un intervento tampone, e di procedere all’analisi della situazione e alla corretta definizione del problema. In caso contrario l’emergenza si ripresenterà in modo sempre più grave, costringendoci ad un continuo tamponamento che rimanda la vera soluzione del problema.
Se l’emergenza si ripresenta puntualmente e diventa la normalità, ovviamente non è più un’emergenza, ma una nuova condizione in cui ci si viene a trovare. Dunque modi e tempi vanno riprogettati per adattarsi alla mutata situazione. Spesso ci si trova in difficoltà perché si reagisce nello stesso modo a situazioni che sono cambiate. Un esempio classico è il traffico. Nelle grandi città, ma ormai anche nei paesi, c’è ormai da più di trent’anni anni, quindi non è emergenza, è normalità. Ma noi continuiamo a pensare di muoverci come se il traffico non ci fosse o fosse diverso. Se c’è il traffico dobbiamo cambiare noi, magari andando più lenti (in bicicletta) per arrivare prima.
Oggi sempre più ci troviamo ad operare in sistemi complessi e turbolenti. Se dovessimo decidere ed agire solo quando possediamo tutte le informazioni necessarie resteremmo paralizzati. Tom Peters propone di agire velocemente a costo di sbagliare, e di diventare capaci di gestiree superare l’errore. E’ il concetto di failure management, che Peters compendia in tre parole: fail, forward, fast. Sbaglia, vai avanti, fa presto. Spesso chi opera nelle organizzazioni fa il contrario. Per paura di sbagliare non fa e non decide nulla. Ma così poi le cose diventano urgenti e addirittura ingovernabili.